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Il Colera e la paura del contagio

Il Colera e la paura del contagio

Le notizie che circolano sul colera sono vaghe e imprecise, e la maggior parte delle persone ha paura del contagio, pensando che sia una malattia fortemente contagiosa anche per semplice contatto o nell’aria, come l’influenza. Oggi la velocità di informazioni è uno scudo formidabile, ma crea anche immotivato timore, ansia ed un senso di vulnerabilità totalmente infondato, tanto più nelle società occidentali. Siamo meno a rischio, eppure ci sentiamo molto più a rischio. Ma è davvero così?

Timore immotivato

Se ne è parlato molto, specialmente dopo gli ultimi due casi registrati a Napoli: una donna e il figlio di due anni, immigrati residenti a Sant’Arpino e rientrati da poco dal Bangladesh. Si tratterebbe dei primi casi in Italia dal 2008, secondo i dati dell’ECDC, Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie, mentre in Europa sono poche decine l’anno i casi di colera importato.

Napoli ai tempi del colera

Il 1973 è un anno terribile per la città di Napoli, l’anno in cui la popolazione fu sconvolta da una tragica epidemia di colera ed infestata dalla paura. La città si ritrovò assolutamente impreparata all’emergenza e, tra estenuanti code per i vaccini e precauzioni varie, 911 furono i ricoveri, 127 i casi accertati, 10mila i portatori sani.
Un secolo prima, due volte la città era stata colpita dal morbo e i morti allora erano stati migliaia. Ma nel 1973, nel cuore dell’Occidente avanzato, una tra le città più densamente popolate d’Europa finì in balia di un male che si riteneva sopravvivesse ormai soltanto in angoli remoti della terra segnati da miseria e sottosviluppo.
Quando tutto fu finito si disse che l’epidemia aveva provocato la morte di 12 o al massimo 24 persone. Il responsabile dell’infezione venne individuato nelle cozze che ospitavano il vibrione (non quelle coltivate nel Golfo di Napoli ma di una partita importata dalla Tunisia). Il colera fece aprire gli occhi su una serie problemi che preesistevano all’epidemia: quartieri degradati, condizioni igieniche da terzo mondo, un mare inquinatissimo e un sistema fognario vecchio di secoli inadeguato alle esigenze imposte da una crescita urbanistica incontrollata.

 

Il vibrione prolifera nel degrado

Il ponte che collega il colera di ieri a quello di oggi è il degrado ambientale.

Se i due casi a Napoli non hanno avuto seguito, per fortuna, è perchè solo nel degrado il vibrione può proliferare: gabinetti comuni, quando ci sono, scarichi fognari senza depuratori, acque non potabili utilizzate quotidianamente. Non a caso le attuali pandemie di colera sono presenti nei paesi sottosviluppati dove le condizioni igieniche sono scarse, fattore determinante per lo sviluppo della malattia.  Il Colera, “malattia delle povertà”, potrà essere debellato solo se si troveranno degli strumenti che combattano la sua principale causa: la povertà.  Il colera è allo stesso tempo un sintomo e una malattia. È un sintomo di un investimento insufficiente da parte della comunità internazionale nell’assicurare accesso universale all’acqua e ai servizi sanitari. Dato che la trasmissione oro fecale è la via principale di diffusione, la persistenza del colera nel 21 esimo secolo riflette il fatto che lo stato di sviluppo attuale lascia più di un miliardo di poveri a rischio di ingerire feci con il cibo e l’acqua.E questo perché la povertà, la carenza di acqua potabile, l’educazione all’igiene e l’accesso alle cure sono la vere cause delle morti per colera.

Il colera c’è ancora in Europa? 

In Europa e nei Paesi industrializzati il colera è una malattia di importazione. In Italia, l’ultima importante epidemia di colera si è verificata nel 1973 in Campania e Puglia. Nel 1994 si è avuta a Bari un’epidemia limitata, con una decina di casi. E, nel 2008, un uomo è morto di colera a Milano, di rientro dall’Egitto: gli accertamenti hanno dimostrato si era infettato all’estero. Anche nel resto d’Europa i casi sono limitati, con un’incidenza di un caso ogni 10 milioni di abitanti. Risulta, quindi, evidente che quando un caso di colera raggiunge l’Europa, portato quasi sicuramente da un viaggiatore, è praticamente impossibile che possa diffondersi.

Cos’è il Colera

Il Vibrio cholerae, un batterio naturale

L’infezione dell’intestino, che causa una forma grave di diarrea, è provocata dal batterio Vibrio cholerae che vive soprattutto nelle acque salmastre, come gli estuari dei fiumi, ma può contaminare anche le acque dolci.

Alla luce delle più recenti conoscenze, il vibrione del colera può essere considerato un batterio marino autoctono che vive negli ambienti acquatici ricchi di plancton, alghe verdi filamentose, copepodi, crostacei, insetti, e aggregati di uova di chironomidi, insetti simili alle zanzare ma che mancano di apparato succhiatore. È preda di protozoi e batteriofagi e può anche legarsi a organismi come il fitoplancton o le macroalghe.

Le basse temperature e le condizioni nutrizionali possono innescare lo stato VBNC, una specie di ibernazione, dal quale si rianima quando le condizioni sono più favorevoli. Pesci e uccelli si nutrono di plancton o cozze che potrebbero ospitare il vibrione e possono potenzialmente diffondere il batterio su lunghe distanze. Pertanto il V. cholerae non può essere eradicato, proprio perché è parte del normale ambiente delle acque del nostro pianeta.

Cambiamenti climatici

C’è però un altro problema, che è il clima. Il vibrione vive e prolifera in acque mediamente calde ma si trasmette attraverso le feci e le acque inquinate, di cui le cozze sono i filtri più comuni. I cambiamenti climatici e il conseguente aumento della temperatura delle acque, secondo diversi studi, favoriscono lo sviluppo del batterio dell’ambiente.

Come ci si può infettare

Il contagio diretto da persona a persona è molto raro in condizioni igienico-sanitarie normali. La carica batterica necessaria per la tramissione dell’infezione è, infatti, superiore al milione: pertanto risulta molto difficile contagiare altri individui attraverso il semplice contatto senza la contaminazione di cibo o acqua.
L’infezione si prende, infatti,  consumando acqua o alimenti contaminati dalle feci di individui infetti, in cui è presente il batterio. I cibi più a rischio sono quelli crudi o poco cotti, per esempio i frutti di mare. La malattia comincia a manifestarsi da 12 ore a 5 giorni dopo l’ingestione di cibi o liquidi contaminati. La maggior parte delle persone infettate in realtà hanno scarsi o nessun sintomo, anche se le loro feci possono continuare a far ammalare gli altri. In una minoranza di casi, circa uno su venti, si verifica però una forma grave di diarrea acquosa. È proprio la disidratazione causata dalla diarrea che può portare, soprattutto nei Paesi dove l’assistenza sanitaria è poco sviluppata, alla morte nel giro di poche ore. Se diagnosticata in tempo, la malattia è facilmente trattabile. Con un trattamento adeguato, la prognosi è buona e il tasso di mortalità quasi inesistente.

Per questo motivo, si raccomanda ai viaggiatori in procinto di recarsi in paesi a rischio, specialmente nella fascia equatoriale, di non mangiare cibo contaminato o in locali che non rispettano gli standard igienici.

Norme igieniche di base in viaggio

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità,  questi sono i punti base per la prevenzione delle malattie trasmesse dagli alimenti:
Bere solo acqua in bottiglia, mai quella del rubinetto o delle fontane, nemmeno negli alberghi o sui treni. Valutare sempre attentamente l’integrità del tappo e del sigillo prima del consumo. Se non c’è in bottiglia, si può bere tè o acqua bollita.
Non aggiungere ghiaccio alle bevande: il ghiaccio è la forma solida dell’acqua e quindi se l’acqua era “impura”, anche il ghiaccio è “impuro” e rappresenta un altro veicolo di malattie, più “subdolo”, ma altrettanto pericoloso!
Frutta e verdure crude vanno consumate solo dopo averle sbucciate e lavate con acqua “sicura”. In mancanza di acqua potabile, consumarle solo dopo bollitura per almeno 1 minuto a 100°C o con l’aggiunta di qualche disinfettante. Una buona soluzione disinfettante ad uso domestico può essere ottenuta diluendo 1 cucchiaio da tavola di comune varechina in 1 litro d’acqua.
Consumare solo cibi ben cotti, ancora caldi.
Non consumare pesce o frutti di mare crudi o poco cotti.
Non bere latte o mangiare latticini non pastorizzati.
Curare l’igiene personale, usare acqua potabile anche per lavarsi i denti, lavarsi sempre le mani prima dei pasti e dopo l’uso dei servizi igienici. In alternativa, usare salviette e disinfettanti.
Non acquistare generi alimentari da venditori ambulanti.
Non nuotare nei fiumi e nei laghi di acqua dolce.

Bisogna sempre partire da se stessi per mantenersi in buona salute, non sono solo “buone maniere” ma soprattutto “norme igieniche”.

Fonti: Le Infezioni in Medicina, n. 2, 85-92, 2007
Farnesina Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale Viaggiare sicuri

 

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