Acqua, ossigeno e radiazioni, la ricetta della radioterapia
Al giorno d’oggi le cellule tumorali non hanno una vita facile. La ricerca escogita ogni anno nuovi modi per aggredirle, e nella maggior parte dei casi con intenti assassini. Questo non significa, però, che siano solo i nuovi metodi a portare avanti la lotta contro il cancro. Anche vecchie glorie come la chemioterapia e la radioterapia continuano a ottenere ottimi risultati, e anzi si evolvono con il passare del tempo, diventando sempre più efficaci.
La radioterapia
La radioterapia attacca i tumori inondandoli con una pioggia di radiazioni molto energetiche, chiamate radiazioni ionizzanti. Queste abbrustoliscono per bene le cellule tumorali, danneggiando soprattutto la loro parte più sensibile: il DNA.
Le radiazioni ionizzanti possono attaccare il DNA direttamente, oppure servirsi di altre molecole che fanno il lavoro sporco al posto loro. In genere si tratta di molecole d’acqua che, colpite dalle radiazioni, si spezzano e si trasformano in composti molto aggressivi, finendo per fare parecchi danni.
Le cellule tumorali colpite dalla radioterapia tentano, anche nelle situazioni più disperate, di rattoppare il DNA danneggiato. Ma a volte lo fanno male, riattaccando i pezzi un po’ a caso; e i cromosomi finiscono per assomigliare a dei vasi di ceramica rotti e incollati: rischiano di andare in pezzi appena li tocchi.
Per un po’ le cellule tumorali danneggiate riescono a tirare avanti; ma quando provano a riprodursi – e sono quindi costrette a mettere mano al proprio DNA – succedono delle catastrofi che spesso le portano alla morte. Per questo gli effetti benefici della radioterapia possono manifestarsi anche parecchio tempo dopo il trattamento.
Senza ossigeno
Oltre alle molecole d’acqua e alle radiazioni, la radioterapia richiede un altro importante ingrediente per funzionare bene: l’ossigeno, che agisce come un amplificatore, moltiplicando la potenza distruttiva delle radiazioni. Purtroppo, l’ossigeno è spesso un bene di lusso per le cellule tumorali, che stanno così accalcate l’una all’altra da non riuscire neanche a respirare: una buona parte di loro vive in un cronico stato di semi-soffocamento, chiamato ipossia.
Le cellule tumorali in ipossia sono una bella gatta da pelare, perché hanno abbastanza ossigeno per sopravvivere, ma non abbastanza da patire gli effetti delle radiazioni.
Mentre le loro colleghe più “ossigenate” muoiono dopo la radioterapia, loro a volte sopravvivono. Anzi, prosperano. La dipartita delle altre cellule, infatti, fa un po’ di spazio all’interno del tumore, e aumenta la disponibilità di risorse, permettendo alle cellule in ipossia di ricevere più ossigeno. Questo però le rende di nuovo vulnerabili: alla prossima sessione di radioterapia, saranno loro a subire i maggiori danni.
Così a morire sono (principalmente) le cellule tumorali, che quando provano a riparare il loro DNA combinano sempre dei disastri tali da soccombere, nella maggioranza dei casi. Questo è un esempio di come la radioterapia sia cambiata negli anni, per tenersi al passo con i tempi. Ma non è certo l’unico. Una volta gli strumenti usati per “sparare” le radiazioni erano abbastanza imprecisi: si mirava al tumore, ma si colpivano inevitabilmente anche altre cellule, più o meno vicine, perfettamente sane. E in molti casi, non era neanche facile capire dove esattamente si trovasse il tumore.
Oggi i medici possono visualizzare i tumori in alta definizione e in 3D (e senza neanche bisogno degli occhialini!); e gli strumenti per la radioterapia sono diventati di una precisione chirurgica. Questo permette di risparmiare cellule innocenti, e di essere più cattivi con quelle tumorali. I risultati si vedono: la nuova radioterapia è un’arma ancora più efficace contro il cancro.
Fonte: scuola.airc.it
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